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martedì 22 dicembre 2015


LA COLTA OPERA BUFFA DI VINICIO CAPOSSELA
(ovvero: da quanto tempo!)


Mia figlia, appassionata di musica, mi ha chiesto un giorno perché io non la ascolto mai. Ci ho riflettuto e mi sono accorta che è vero. Eppure fin da piccola è stata una presenza fondamentale nella mia vita. Se l'ho abbandonata in questi ultimi anni è per mancanza di tempo. Perché per vedere un film o leggere un libro puoi trovare le due ore al giorno necessarie per farlo, ma la musica – a meno che tu non ascolti solo canzonette – ti chiede molto di più. L'ascolto non può essere distratto, episodico, perché la musica è un'amante gelosa, richiede tutta la tua attenzione, chiede calma e totale dedizione.
Ma ieri, finalmente, ho avuto modo di immergermi totalmente per ben 3 ore in un mondo fatto di musica nella sua accezione più alta. 
Una piccola premessa: nel 1999 ho lavorato con Marina Fabbri nell'organizzazione della prima e unica edizione di un festival cinematografico a Reggio Calabria che si chiamava XX Secolo in onore della prossima fine del '900. Tra i molti ospiti di quella bellissima e per me indimenticabile kermesse c'erano Tim Roth e Vinicio Capossela, che all'epoca non masticava una parola di inglese così come l'attore non ne capiva una di italiano. Eppure ricordo una cena in cui loro due comunicavano benissimo e dove ho cercato di intromettermi il meno possibile, se non su richiesta, affascinata nel vedere come due uomini di talento riuscissero a farsi capire senza, in effetti, capirsi. Erano due personaggi così particolari che vederli insieme era giù uno spettacolo. Al festival poi Capossela si esibì con la gitana Kocani Orkestar, in un'esplosione di musiche balcaniche che mandò in ebollizione il pubblico. 

 
 Dopo tanti (troppi) anni, il 21 dicembre sono riuscita a riascoltare dal vivo questo  chansonnier et musicien extraordinaire in uno spettacolare concerto al Teatro dell'Opera di Roma. Mi erano sempre sfuggite, per un motivo o per l'altro, le sue esibizioni, spesso eventi unici o in date che non mi trovavano mai libera la sera in questione. Avevo ascoltato e amato molto alcune canzoni ma non mi ci ero mai dedicata con l'impegno che meritano.
Ieri finalmente ho rimediato a questa mancanza e ne sono stata immensamente felice. Sul palco lui con la sua naturale estensione, il pianoforte, alcuni suoi collaboratori storici (tra cui il mitico Vincenzo Vasi capace di trarre dal suo theramin voci umane e ultraterrene) e l'arrangiamento e accompagnamento dell'orchestra d'archi Maderna diretta dal Maestro Stefano Nanni. Ad assistere a questo evento che festeggia i suoi 25 anni di carriera e che si chiama, appunto, Qu'art de siècle, o Fantasmagorie, arrivato in Italia dopo un tour europeo, c'erano almeno 1600 persone, ovvero il teatro strapieno in ogni ordine di posti da un pubblico eterogeneo, di varie generazioni, preparato, appassionato ed entusiasta (quello dei palchi a volte anche troppo).

Alla fine della serata ho pensato che avevo assistito a uno spettacolo che valeva almeno il doppio di quanto avevo pagato: 3 ore di storie, viaggi, emozioni, canzoni ed elegie, bestiari e caravanserragli, profeti, balene e marinai, tra poesia e letteratura, mito greco e cinema contemporaneo, con una profondità e un'intensità che hanno rapito tutti i presenti. Il bis è durato quasi un'ora e ha presentato anche due inedite Canzoni della Cupa, che attingono al repertorio di Matteo Salvatori e hanno al centro mostri tipici delle zone pugliesi, come lupi e porci mannari che hanno ululato e grugnito alla luna dopo aver ceduto ai loro istinti bestiali e carnali. C'è stato spazio e l'occasione giusta anche per festeggiare i Saturnali (16/23 dicembre), condotti con la maschera del Minotauro, con l'accompagnamento di campanacci ed eseguito con una selvaggia e dionisiaca energia, dove a bruciare invece di Troia era giustamente Roma. Ho pensato a quanto quest'uomo, questo artista, sia cresciuto nei 16 anni da quando lo avevo ascoltato per la prima volta. 

 
Con ogni cambio di copricapo è stato (è) capace di attraversare, portandoci con sé, paesi e storie del nostro mondo, attingendo a suggestioni suscitate da film come Toro Scatenato, C'era una volta in America e Birdman. In tre ore ha cantato boleri nelle vesti di un picaro, è stato Dickens e il capitano Achab in lotta contro il mostro Moby Dick, Giona nella pancia del Leviatano, il cantastorie di paese con l'organetto di Barberia; con la voce struggente dei violini, una piccola pianola, la chitarra e il pianoforte, ora sussurrando ora gridando, ha raccontato storie, celebrato l'amore tra due pianoforti abbandonati in un magazzino di Lubecca dopo la guerra, evocato lo sfarzo pacchiano dei nostri Marajà, il difficile ritorno di Ulisse, il viaggio nella conoscenza di Dante con la sua Commedia, ha dato voce alla civettuola sirena Pryntil dello Scandalo negli Abissi di Céline e ci ha benedetto con la splendida preghiera laica Ovunque proteggici



Con la sua arte Vinicio Capossela ha tenuto avvinte come un prestigiatore le anime di persone di ogni età, riunite in un teatro per uno splendido rito pagano e ne ha avuto in cambio un amore appassionato e sincero.
Oggi, leggendo cose in Internet su di lui, mi sono anche imbattuta in due articoli i cui autori – uno in specie – sfoggiavano una bella e spiritosa prosa per demolirne la figura e le capacità, cercando di dimostrare che si tratta di una moda, un falso, un ubriacone neanche originale. A questi signori vorrei dire che tutto - anche l'esser bravi giornalisti - si può fingere, tranne la cultura e la sensibilità. L'invidia per un grande talento è perfino più triste di quella meschina tra vicini di pianerottolo. Ma del resto siamo in Italia, dove un artista come Vinicio Capossela, apprezzato in tutta Europa, rischiamo di non meritarcelo.

La Musica, quella che ha parole e armonie che vengono da molto lontano, ci chiede solo di aprire l'anima e ascoltare, in uno scambio che arricchisce chi la riceve, come la bella letteratura e il buon cinema (o viceversa). 

E dunque Buone Feste ai miei pochi e fedeli lettori, con l'augurio di avere sempre voglia di viaggiare in territori sconosciuti e di seguire la voce delle sirene a testa alta e  con passo deciso, senza paura di finire nella pancia del mostro.

martedì 27 ottobre 2015


25 ANNI DOPO UGO TOGNAZZI, 

UN RICORDO DI 15 ANNI FA

Dagli archivi perduti di Coming Soon Television




Nel 2000, dopo anni di critica cinematografica per riviste e collaborazioni a festival, iniziava per me un'avventura televisiva che si è da poco conclusa, l'esperienza di Coming Soon Television, oggi trasformata in sito. Uno dei primi servizi che feci - ai tempi beati in cui le interviste duravano mezz'ora e gli speciali tv quanto ci pareva - fu dedicato proprio ad Ugo Tognazzi, e venne anche piuttosto bene. Ricordo che durava 12 minuti, era pieno di scene dei suoi film e chiudeva con lui che faceva volare l'aquilone per Vittorio Gassman sulla spiaggia, splendido finale dell'episodio La nobile arte, citato alla fine. Proprio oggi ho ritrovato lo speaker e, cambiando le date, mi sembra che sia la commemorazione più giusta che ancora oggi potrei fare a questo grande talento. Immaginatevi... le immagini, e questo è il testo:


Ricordare un attore a dieci anni dalla sua scomparsa non è difficile, se il patrimonio cinematografico che ci ha lasciato è ricco come l’eredità di Ugo Tognazzi. Ugo Tognazzi, nato a Cremona il 23 marzo del 1922, ha infatti interpretato, in una carriera iniziata nel 1950  con I cadetti di Guascogna di Mario Mattoli, e stroncata dalla morte 40 anni dopo, qualcosa come 150 film. Ma quel che colpisce e impressiona, è la straordinaria qualità di questa filmografia: Marco Ferreri, Bernardo Bertolucci, Dino Risi, Ettore Scola, Roger Vadim, Pierpaolo Pasolini, Luciano Salce, Mario Monicelli, sono solo alcuni dei registi con cui ha lavorato, anche più volte.

Fin dalle sue mitiche macchiette televisive in Un due tre al fianco di Raimondo Vianello,Tognazzi si è rivelato non solo comico dai mille volti, ma anche artista capace di infondere alle sue interpretazioni un senso più amaro, la malinconia sanguigna e completamente agnostica derivante dallo smarrimento molto umano di vivere su una terra che, al di là di piaceri terreni come il cibo e il sesso, non sembra disposta a riempire la nostra sete di assoluto. Tanto quanto era solare ed amato nella vita privata, tanto i suoi personaggi migliori parlavano il linguaggio tragico dell’anima moderna.

Tra i tanti personaggi che Tognazzi ci ha regalato, nella nostra galleria del cuore spiccano la tragica Madame Royale, il conte Lello Mascetti di Amici miei, l’umanissimo Renato Baldi de Il vizietto, il soave sarto sordomuto di Straziami ma di baci saziami. Era proprio in queste caratterizzazioni che la sua arte si elevava a livelli altissimi, e duetti come quello con Vittorio Gassman in La nobile arte, episodio de I mostri di Dino Risi, ancora oggi ci coinvolgono e ci commuovono, facendoci realizzare quanto il cinema italiano abbia perso con la loro scomparsa.

Attore per tutti i generi e per tutte le stagioni, come solo i grandi interpreti sanno essere, dieci anni dopo la sua morte Ugo Tognazzi, con la sua presenza un po’ carogna e molto tenera ci manca ancora moltissimo. Lui è uno dei pochi, con gli amici Gassman e Mastroianni, che avrebbe saputo portare sullo schermo il Duemila come si merita, col tono annoiato e un po’ schifato, ironico e sornione, beffardo e disilluso, che tanto ce lo ha fatto amare.

domenica 30 agosto 2015

COME LACRIME NELLA PIOGGIA
Dato che nel web panta rei, ripropongo qua alcuni miei articoli per Comingsoon


Non so se  abbiate mai riflettuto sulla precarietà di internet. Sì, tracce di noi resteranno anche quando noi ce ne saremo da tempo andati, ma molte delle cose che pubblichiamo e che ci piacerebbe restassero, vengono travolte da quelle che vengono dopo e finiscono per sparire per sempre. Il web è grande ed è il regno dell'ORA. Ricordo quando da ragazzina ho iniziato a tenere e ad accumulare ritagli: articoli, critiche, foto, interi archivi di quello che mi interessava e che ho conservato fino ad oggi. Ora questo è impensabile: se leggi qualcosa che ti interessa su internet lo metti tra i preferiti ma non puoi stamparlo (neanche ti conviene, la carta occupa spazio e attira polvere) e spesso te ne dimentichi. Io credo che tutto quello che ho scritto per il sito di Comingsoon negli anni sia deperibile e non memorabile, ma ad alcune cose sono affezionata e mi dispiacerebbe un po' che andassero perdute come lacrime nella pioggia, appunto. Per cui ho deciso di linkare qua alcuni dei miei articoli più recenti, soprattutto i pezzi sulle ricorrenze, liete e tristi (purtroppo sempre più spesso queste ultime!), nel mondo del cinema, e i profili di attori e registi che amo e che ho avuto spesso la fortuna di conoscere di persona, anche per mettere un po' d'ordine nel mio personale caos primigenio. In futuro, se avrò tempo e voglia, vedrò di creare un vero e proprio archivio virtuale delle mie recensioni e delle interviste pubblicate in rete.  Intanto cominciamo con queste:

























sabato 22 agosto 2015

ANNIBALE CANNIBALE TERRIBILE
La stagione del mio disamore per Hannibal



Nella vita le delusioni abbondano: deludono i fidanzati, gli amici, i figli, figuriamoci se non può deludere una serie tv che riempie una minima parte – certo meno importante -  della nostra vita. Confesso di esser stata presa dalla serialmania da cui mi ritenevo immune e di aver guardato un po' di tutto, negli anni, spesso anche per futili motivi. Ad esempio ho guardato due stagioni del (per me) insensato Sleepy Hollow perché ci recitava il mio amico John Noble, straordinario attore, e ho tirato un sospiro di sollievo quando ho saputo che se n'è andato e non sarò costretta a veder la terza. A volte dò una chance anche alle sitcom ma l'unica che mi è rimasta appiccicata negli anni è The Big Bang Theory a cui si aggiunta la purtroppo sporadica ma fantastica gay-com inglese Vicious.
Per motivi di lavoro e di interesse cerco poi di vedere almeno le prime puntate di tutte le serie horror e fantastiche e nell'ordine dopo un po' per vari motivi ho scartato Dexter, The River, Under the Dome, Penny Dreadful e Lost Girl, mentre resto per ora fedele a The Walking Dead (ma non vedrò Fear the Walking Dead) e a Grimm. E poi naturalmente c'è Hannibal, che fino all'anno scorso, come molti sanno, era nella mia top ten e anche piuttosto in alto. 
Amo e stimo da sempre Bryan Fuller (adoravo Pushing Daisies!) ed ero quindi piuttosto curiosa di vedere quale sarebbe stato il suo approccio alla saga di Hannibal Lecter, diventata sempre più mediocre libro dopo libro e film dopo film, con l'eccezione de Il silenzio degli innocenti e Manhunter e dei primi due romanzi. Non sono rimasta delusa. Le prime due stagioni, scandite da pranzi e cene gourmet a base di carne umana, hanno portato Hannibal a un livello superiore, quello di un vero e proprio demone, anzi, del Diavolo in persona, come lo stesso autore e Mads Mikkelsen hanno da subito dichiarato. 



Era dunque bello vedere la tensione e l'evolversi del rapporto tra lui e il Will Graham di Hugh Dancy, l'uomo capace di immedesimarsi nella mente dei serial killer, e il fatto che quest'ultimo avesse problemi mentali in partenza e fosse affidato proprio alle arti manipolatorie del dottor Lecter dava il via a suggestioni e intrichi psicologici raramente presenti nei superficiali serial americani. Era, insomma, una serie intellettuale, non facile, in cui la morte veniva messa in scena come un'opera d'arte, congelata nella sua atroce bellezza e dove le metafore visive (anche se assai ripetute, come quella del cervo) abbondavano, arricchendola di visionarietà. Hannibal era un artista del male, chirurgico nel dispensare la sua beffarda giustizia terrena e determinato a crearsi una famiglia psicotica di suoi pari. Era l'intelligenza del male spinta all'estremo, capace di giocare con la mente dei suoi interlocutori/vittime come il gatto col topo, sornione e in perenne attesa. E c'era anche molta ironia, che alleggeriva i momenti più raggelanti della storia. Più astratto dei romanzi e dei film, dai quali volutamente si distaccava, Hannibal aveva creato un mondo, in cui, pur richiamando le visioni dell'Inferno dantesco e quelle di Milton e di William Blake, portava avanti in modo originale una storia coerente. 



L'attrazione tra Grahan e Lecter, fortemente intrisa di omoerotismo, funzionava anche come esasperazione del tema dello specchio e del mito di Narciso, mentre l'inserimento tra i due di un attore dalla concretezza e dalla fisicità di Laurence Fishburne nel ruolo di Jack Crawford faceva da sponda al gioco tra di loro, magnificando le geometrie dei loro rapporti. C'è da dire che i personaggi femminili, a partire dalla dottoressa Alana Bloom che è infatutata di Will Graham, va a letto con Hannibal e si scopre poi lesbica fidanzandosi con la ricchissima Verger (?) per arrivare all'insulsa giornalista di true crime Freddie Lounds, trasformata in donna per esigenze di... boh, forse per equilibrare i personaggi maschili, sono quelli che ci hanno sempre convinto meno. Comunque, dopo una serie di episodi in cui Hannibal sembrava aver preso una SUA strada originale, c'è stata la necessità di tornare ai libri di cui la produzione di Martha De Laurentiis detiene i diritti. Ecco così che la parte relativa a Mason Verger, una di quelle potenzialmente più interessanti, dopo un interessante inizio nella seconda, è stata sbrigativamente (e goffamente) liquidata all'inizio della terza stagione, così come la (inutile) storia delle origini di Hannibal, con l'inserimento di un personaggio femminile, l'inutilissima Chiyo, che sembra uscito da Kill Bill o da Sin City, sostituisce la zia che educa Hannibal nei libri e agisce da deus ex machina in entrambe le storie prima di sparire (o sparare?) per sempre. 



L'inizio della terza stagione intreccia a piacer suo varie trame non tutte sulla stessa linea temporale, ed è non solo brutalmente spiazzante, ma perde per strada anche quel minimo (un minimo!) di plausibilità, necessario anche nelle narrazioni più fantasiose. Personaggi insignificanti appaiono e senza il minimo approfondimento vengono velocemente spacciati dopo cene che non somigliano per niente alle raffinate preparazioni delle prime stagioni, si passa dalla Sicilia a Firenze nel volgere di un episodio, con tutti che inseguono tutti, si sfiorano, si perdono, si ritrovano e si lasciano bigliettini amorosi (sotto forma di cadavere, of course), con l'irritazione supplementare, in una serie così ricca e curata, di vedere tradotte in modo ridicolo con Google traduttore delle scritte in “italiano” e il fastidio dell'incongrua liaison e complicità tra Hannibal e la sua psicanalista schizzata, Bedelia (che purtroppo sostituisce in molti episodi della vicenda l’insostituibile Clarice Sterling) interpretata con un continuo tono sussurrato e monocorde dalla pur brava Gillian Anderson (no tartuffi bianchi for me, please!). Dopo il pessimo sfruttamento delle location e degli attori italiani, in una Firenze surrealmente deserta, con dialoghi sempre più pretenziosi e vacui che esprimono concetti già detti e ridetti, immagini al ralenty e dettagli in macro messi lì tanto per riempire il lentissimo tempo della narrazione, Hannibal si consegna spontaneamente a Jack Crawford e nella puntata numero 8 (su 13) ritorniamo finalmente nel solco della narrazione "regolare", con un balzo avanti nel tempo, per raccontare la storia di Red Dragon in modo molto simile al libro e al film, ma con un paio di differenze sostanziali che non spoleriamo.



Sono passati tre anni e Will Graham è accasato con una insignificante sconosciuta e col figlio undicenne di lei con cui vive nella solita casa circondata da nevi perenni e la sua muta di cani, ma non sa resistere al richiamo del caso della Fatina dei Denti/Grande Drago Rosso (ben impersonato dal fin troppo bello Richard Armitage, al quale però comunque continuiamo a preferire Tom Noonan e Ralph Fiennes). E anche in questa parte, comunque assai migliore dei primi episodi, ci sono cose così implausibili che richiedono un livello di sospensione dell’incredulità prossimo allo stratosferico. Torna anche la sussurrante Bedelia, ancora inspiegabilmente in libertà, e rientra non si capisce bene bene a che titolo nell’FBI quell’altra poco affidabile strizzacervelli di Alana Bloom (poi dice uno non si fida della categoria!).



E' come se Fuller, incoraggiato dai risultati ottenuti con una serie tanto anomala, avesse deciso di premere il pedale dell'acceleratore convinto che tutti lo seguissero nella sua corsa contro il muro, e dopo averci affascinato e orripilato con le sculture cadaveriche di Hannibal e i suoi incredibili tableau mourants, quando è stato costretto a rientrare nell'alveo di una narrazione più classica, col fiato del network sul collo, si fosse trovato impreparato, fino a perdere il controllo del materiale. So che – così come ci sono moltissime persone che si sono disamorate della serie - ce ne sono altrettante se non di più che continuano ad amarla e ad esaltarla, anche tra i critici. Il problema nel mio caso non è la comprensione dei “messaggi” e delle metafore: è tutto così insistito e ripetuto che neanche lo spettatore più distratto può evitare di capire, e se così non fosse nella puntata nr. 12 tutto viene esplicitato in parole). Il problema è la fastidiosa sensazione di assistere alla confusione mentale di un autore di grande talento che, impegnato su più fronti, ha lasciato che la perfetta architettura delle prime due stagioni prendesse derive inutili e sbilenche, mostrando crepe enormi in un edificio altrimenti perfetto.

Resta ancora una puntata alla fine (pare definitiva) della serie, perciò potrei tornare sul discorso ma al momento preferirei dimenticare almeno la prima metà di questa stagione e ricordare solo le due precedenti.


martedì 19 maggio 2015

CRITICA SI', CRITICA NO, SE FAMO DU' SPAGHI?

E' APERTO IL DIBATTITO


In questo periodo si fa un gran dibattere su testate online, cartacee e convegni, su una questione vecchia come Matusalemme: la critica cinematografica è viva, morta, svenuta, ha traslocato, sai per caso se ha lasciato un nuovo indirizzo? Siccome un po' di esperienza sul tema ce l'ho - anche se mi sono patentata solo di recente - ho deciso di esprimermi in merito, visto che questo spazio è mio e non è sponsorizzato da nessuno, per cui la mia coscienza può dormire tra quattro guanciali (lo so che sono due ma a me piace stare comoda).

Ho provato a scrivere un pezzo serio ma veniva chilometrico, dati gli anni che ho sulle spalle e la mia notoria incapacità di sintesi, per cui ho pensato che invece potrei dare ai ggiovani qualche consiglio non richiesto, come quelli che io invece nei bei tempi della mia gioventù ho chiesto a critici già affermati e che mi sono stati molto preziosi. 
Fatene quello che vi pare (gli articoli sul web hanno lo svantaggio che per incartarci il pesce vanno prima stampati): qua le due pillole di saggezza di un cane sciolto che ha iniziato il suo percorso su riviste specializzate all’epoca dei Grandi Vecchi, passando poi a pubblicazioni meno cattedratiche,  ai libri e alla tv tematica per approdare infine al Web, massima livella democratica (verso il basso). 




PICCOLO DECALOGO PER ASPIRANTI CRITICI O CRITICI DILETTANTI

1)    Conoscere il cinema, possibilmente almeno i capisaldi dal muto al sonoro. Il cinema non è iniziato con voi né col vostro regista preferito e se è vero che nulla si distrugge e tutto si trasforma potrebbe sorprendervi scoprire da dove il tale o il talaltro ha preso gli ingredienti che costituiscono le vostre pietanze preferite.

2)    Conoscere la grammatica e la lingua italiana sarebbe un requisito necessario, o almeno un tempo lo era.

3)    Fidatevi non solo di quello che sapete ma anche delle vostre sensazioni: spesso sono quelle che permettono di entrare in sintonia con l’autore e quando succede è molto bello.

4)    Mai lasciarsi condizionare dalle proprie idiosincrasie per un autore o un genere: basta dire “no, non posso, lo scriva qualcun altro”. Io, ad esempio, non recensisco i film di Paolo Sorrentino perché so che non gli renderei giustizia.

5)    Non annoiare il lettore e scrivere in modo chiaro (mise en abyme, post-moderno e altre parole passe-partout spesso usate a sproposito sono la copertina di Linus del critico insicuro o che ha poco da dire). Si scrive per tutti, non per la cricca che parla in gergo e se si cattura l’interesse di chi legge gli si possono aprire nuove prospettive e punti di vista.

6)    Non sovrapporre mai, senza prove, le proprie letture o opinioni del film a quelle degli autori, attribuendo loro volontà che non avevano o significato a scene magari realizzate per caso per ovviare a qualche difficoltà sul set.

7)    Avere una buona cultura generale: non è obbligatorio diventare delle Treccani viventi, ma se un film è ambientato in un certo periodo o è tratto da un libro o mette in scena la vita di un personaggio famoso, conoscere il background aiuta parecchio. Del resto il cinema comprende in sé tutte le arti e non ammette l’ignoranza.

8)    Non essere pigri: un tempo a noi toccava aspettava anni per rivedere un film, e avevamo solo le retrospettive dei circoli del cinema o dei festival, oggi TUTTO è disponibile sul web in qualsiasi momento.  Dunque, invece di pensare solo al futuro, date la giusta attenzione anche al passato.

9)    Come diceva il vecchio (e maschilista) Clint: le opinioni sono come le palle, ognuno ha le sue. La critica totalmente oggettiva NON ESISTE, è una balla inventata dagli accademici per rompere le scatole agli studenti, così come la bellezza classica che non deve piacere a tutti e per molti è mortalmente noiosa. Ma, come dicevamo prima, dovete motivare tutto. Non vale scrivere, dire, far capire: “a me questo non piace perché preferivo quell’altro film” o “vorrei che questo regista tornasse a fare i film che faceva vent’anni fa”, perché non ha alcun senso e non serve a nessuno. Niente vieta di personalizzare le vostre recensioni, anzi, è bello vedere che chi scrive ha una personalità, ma non siete voi i protagonisti.

10)  Le stroncature acide non servono e non fanno onore a nessuno. Sparare sulla Croce Rossa è uno sport facile e assai stronzo. Un giudizio negativo è più difficile da motivare di uno positivo, ma se ci riuscite sono quelle le critiche che vi daranno più soddisfazione.



Infine, se avete un blog, vi state facendo le ossa, non scrivete su testate giornalistiche e non aspirate a diventare critici di professione e vi diverte spararle grosse, a dire che un film è bello, un altro brutto e un terzo noioso, magari invece di recensioni le vostre opinioni chiamatele “mi piace/mi fa schifo”. E’ più onesto e vi renderete più simpatici, distinguendovi per di più dalla massa dei cialtroni pagati che non capirete mai come hanno fatto ad arrivare dove sono.